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Il Caporalato: definizione e norme di contrasto alle forme di sfruttamento

Il fenomeno del caporalato è spesso collegato alla criminalità organizzata, o a quello che in epoca meno recente veniva definito “brigantaggio”, e costituisce una modalità attraverso cui si diffonde il dominio delle organizzazioni malavitose sul mondo del lavoro.

Il fenomeno del caporalato è spesso collegato alla criminalità organizzata, o a quello che in epoca meno recente veniva definito “brigantaggio”, e costituisce una modalità attraverso cui si diffonde il dominio delle organizzazioni malavitose sul mondo del lavoro, su quelle realtà imprenditoriali di piccole e medie dimensioni , spesso già versanti in condizioni di debolezza contrattuale e imprenditoriale, che per sopravvivere sono costrette a cedere nel vortice dell’illegalità.

Il caporale è, infatti, colui che svolge un’attività di intermediazione reclutando manodopera giornaliera, sovente non specializzata, per collocarla presso i datori di lavoro, pretendendo a titolo di compenso per l’attività svolta una percentuale, in genere superiore al 50%, della retribuzione dei lavoratori interessati. I prestatori di lavoro vittime del caporalato, quasi sempre, sono soggetti che versano in condizioni di particolare vulnerabilità sul piano economico sociale, ora stranieri privi del permesso di soggiorno, ora disoccupati di vario genere.

Il caporale, anello di congiunzione tra l’imprenditore agricolo in cerca di manodopera e il bracciante in cerca di lavoro, organizza la manodopera facendo ricorso a sistemi di reclutamento illegali e imponendo una tangente sulla paga di ogni bracciante. Il fenomeno è particolarmente diffuso, ed ha le conseguenze peggiori, nel settore dell’agricoltura nel meridione d’Italia, dove un numero sempre maggiore di braccianti, soprattutto stranieri, vive e lavora in condizioni di vera e propria schiavitù. Purtroppo solo in episodi drammatici come la rivolta di Rosarno, pagine nera della storia del lavoro in Italia (caratterizzata da violenti scontri a sfondo razziale avvenuti tra il 7 e il 9 gennaio 2010. Iniziati dopo il ferimento di due immigrati africani da parte di sconosciuti con una carabina ad aria compressa, in seguito si trasformarono in una rivolta urbana che ha visto contrapposti forze dell’ordine, cittadini e immigrati), queste realtà̀ sono poste all’attenzione di tutti attraverso i media, sottolineando il dramma del lavoro nero e delle condizioni disumane cui sono costretti migliaia di lavoratori.

Fatta eccezione per questi casi di cronaca nera, il caporalato è una realtà sommersa che trova i suoi consensi.

L’attività dei caporali gode infatti dell’appoggio e la complicità incondizionata dei datori di lavoro conniventi che, aderendo all’offerta, conseguono ingenti risparmi sul versante fiscale e previdenziale, in relazione all’assunzione dei prestatori di lavori che avviene sempre “in nero “ e senza alcuna garanzia. Tutto ciò avviene al fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tariffe contrattuali dei minimi salariali.

Ed infatti, i danni provocati dal caporalato e dal lavoro in “nero” in termini di tasse evase, dei contributi Inps, di danneggiamento dell’ambiente, di mancanza di sviluppo dell’economia, sono enormi per tutta l’Italia

La nascita e la diffusione capillare del caporalato rileva l’esistenza di una vera e propria economica nascosta, alternativa rispetto a quella statale e quindi legale. A tal proposito

  • interessante analizzare i dati del primo rapporto FLAI CIGL su agromafie e caporalato del dicembre 2012. Si tratta di un resoconto dettagliato di una ricerca condotta anche in Italia su 14 Regioni e 65 province. I principali dati emersi, anche di respiro internazionale, sono i seguenti: 3600 sono le organizzazioni criminali attivi solo nell’UE, 600 milioni di euro i mancati ricavi da ricollegarsi al caporalato, in termini di evasione contributiva. Dati importanti sono riportati anche in merito ai sequestri e le confische per mafia relativi ai terreni, aziende e attività, così come previsto dalla Legge 109/1996.

Il solo patrimonio confiscato ad oggi è di circa 2245 terreni a destinazione agricola, a cui vanno aggiunti 362 terreni con fabbricati rurali e 269 terreni edificabili; beni che, come la legge prevede, dovranno essere assegnati e destinati ad enti con prioritarie finalità istituzionali e sociali. Il 43% si trova in Sicilia, il 15% in Campania, il 14 % in Calabria, e a seguire la Lombardia.

Dai risultati dell’indagine risulta che tale forma di sfruttamento, ad oggi, è sì molto diffusa al Sud ed in parte nel Nord d’Italia, con un totale di circa 400.000 persone costrette a subire forma di ricatto lavorativo, ma anche nel resto del mondo, soprattutto in America, più precisamente in California. Studi evidenziano casi di operai pagati 1,60 euro l’ora; basse remunerazioni tutte a vantaggio della grande distribuzione e dei caporali che vengono remunerati fino al 60 % del salario dei braccianti.

Lo sfruttamento del lavoro, soprattutto nelle campagne, ma non solo (basti pensare all’attività edilizia o al settore del turismo con le sue attività lavorative stagionali), è quindi, un fenomeno complesso con una problematica nazionale ed internazionale, ove si collocano ulteriori questioni, quali il lavoro irregolare, il prezzo sui beni imposto dalle multinazionali, o il c.d. “libero mercato” gestito da accordi internazionali siglati da gruppi di potere controllati, direttamente o indirettamente, dal mondo della finanza.

Il principio della massimizzazione del profitto ha provocato, dunque, una crescita esponenziale della povertà; molte aziende agroalimentari sono in attivo e hanno profitti alti, spesso proprio grazie allo sfruttamento della manodopera. Attraverso il libero mercato l’economia non è in grado di controllare il consumo delle risorse, l’inquinamento dell’ambiente, ed un equa distribuzione dei diritti; l’apertura incontrollata dei mercati ha prodotto la povertà, laddove le importazioni agricole a buon mercato hanno messo con le spalle al muro, in tutto il mondo, i piccoli agricoltori. Il caporalato, come detto, è anche uno degli strumenti d’infiltrazione mafiosa nella filiera agroalimentare, meglio conosciuta come agromafia, e che si stima che nel solo 2014 abbia avuto un giro di affari di 14 miliardi. Ciò non vuol dire che tutte le aziende sono disoneste, utilizzano i caporali e sfruttano i lavorati, ma solo che molte lo fanno perché costrette dai bassi prezzi, dalla creazione di maggiori profitti ed infine proprio perché strumento di organizzazioni illegali. Tutto ciò è poi principalmente possibile perché i lavoratori preferiscono guadagnare un salario, seppur infimo, piuttosto che denunciare i datori di lavoro o i caporali.

A riprova di ciò è interessante analizzare una serie di dati, che prendono in considerazione gli anni 2011-2012, relativi proprio alle denunce da parte dei braccianti agricoli.

Nei primi undici mesi del 2012 sono state arrestate 435 persone per riduzione in schiavitù, tratta e commercio di schiavi. Dall’entrata in vigore del reato di caporalato, settembre 2011, le persone denunciate o arrestate sono solo 42 e la metà nel Nord Italia.

Più precisamente, occorre analizzare l’aspetto giuridico-penale collegato a tale fenomeno.

A partire dal dicembre del 2006, si sono susseguiti una serie di disegni e proposte di legge di iniziativa del Governo, ovvero di alcuni gruppi di parlamentari, nella comune consapevolezza di una lacuna normativa riguardo al fenomeno del “caporalato”.

Tuttavia essi non hanno ricevuto un’approvazione definitiva, sino all’entrata in vigore del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 che ha introdotto nel codice penale il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro all’art. 603-bis c.p.

La fattispecie sanzionava, <em>“salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque svolga</em> <em>un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”. </em>La pena, decisamente severa, è della <em>“reclusione da cinque a otto anni e con la multa da</em> <em>1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato”.</em>

<em> </em>La fattispecie di reato puniva appunto <em>chiunque svolga un’attività di intermediazione organizzata</em>.

L’attività dei “caporali”, per assumere rilevanza penale, doveva altresì essere caratterizzata dallo sfruttamento dei lavoratori. Il comma secondo dell’art. 603-bis c.p. individua una serie di fattori sintomatici in presenza dei quali è presunto sussistere tale sfruttamento. Essi in particolare sono:

1) La sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

2) La sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) La sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale;

4) La sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti.
Se da una parte la condotta del “caporale” trovava adeguata sanzione penale, dall’altra il contributo del datore di lavoro utilizzatore rischiava di rimanere impunito, poiché non rientrava nella fattispecie in commento, se non nella forma del concorso di persone, generando così un vuoto di tutela.
Vuoto di tutela a cui si è tentato di sopperire con la Legge 199/2016, che ha modificato alcune disposizioni , in particolare quella dell’art. 603 bis c.p., con l’obiettivo di realizzare azioni di contrasto più efficaci, per arginare la realtà di grave sfruttamento dei lavoratori, prima ancora dei reati di tratta e riduzione in schiavitù.
L’art. 1) della Legge 199/2016, riformula l’art. 603 bis c.p., riscrivendo la condotta illecita del caporale e di chi recluta manodopera per impiegarla presso terzi in condizioni di sfruttamento, ma la novità è che aggiunge anche quella del datore di lavoro.
La norma, quindi, non è più centrata solo sul caporalato, ma parimenti sanziona il datore di lavoro che utilizza, assume ed impiega manodopera reclutata.
Si è cercato quindi di escludere dalla norma in oggetto quel riferimento ad una struttura para-imprenditoriale in capo al solo caporale, perché spesso non aderente con la realtà dei fatti e, soprattutto, difficile da provare processualmente.
Altro elemento di novità è da ravvisarsi nel terzo comma del nuovo art. 603 bis, laddove nel ridisegnare gli indici di sfruttamento dei lavoratori viene previsto anche il pagamento di retribuzioni palesemente difformi dai quanto previsto dai contratti collettivi nazionali e territoriali.
Il nuovo articolo così recita:
“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:
1. 1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;
2. 2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.
Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.
Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:
1. 1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
2. 2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
3. 3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
4. 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:
1. 1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;
2. 2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;
3. 3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro “

Il delitto è collocato all’interno della sezione I, “Dei delitti contro la personalità individuale”, del capo III, “Dei delitti contro la libertà individuale”, del titolo XII, “Dei delitti contro la persona”.
Il bene giuridico tutelato dal delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro è lo status libertatis, inteso come quel complesso di diritti e prerogative proprie di ogni individuo, che sono la base per l’esercizio delle singole libertà.
Questi ultimi concorrono nel loro insieme a determinare la c.d. “personalità individuale”, bene primario protetto a livello costituzionale dall’art. 2 , ma il legislatore non ha mostrato la medesima sensibilità nei confronti di un diverso bene giuridico ugualmente leso dal fenomeno del “caporalato”, e cioè la genuina concorrenza tra le imprese.
Ed infatti, il fenomeno del caporalato attinge sicuramente con particolare efferatezza all’integrità̀ della dignità̀ umana e della personalità̀ individuale. Ciò̀ emerge in primo luogo da un’attenta analisi del rapporto tra lavoratore e caporale o datore di lavoro. Questi ultimi due soggetti, infatti, non si limitano ad utilizzare le prestazioni, bensì̀ ne attuano uno sfruttamento, ossia una forzatura della capacità produttiva, per ottenerne un alto rendimento immediato , depauperandone tuttavia le risorse e pregiudicandone il rendimento futuro.
E’ altresì particolarmente lesivo della genuina concorrenza tra le imprese e con essa della libertà di iniziativa economica, consacrata a livello costituzionale dall’art. 41 Cost., che è compromessa dall’ingiusta competizione di imprese che adoperano metodi illegali di reclutamento del personale dipendente Il normale confronto tra le imprese secondo le regole proprie del mercato globale è falsato dall’adesione di talune di esse all’offerta di manodopera dei “caporali”. In tal modo, i datori di lavoro che assumono i prestatori per il tramite di tali intermediari, conseguono ingenti risparmi sotto il profilo
previdenziale, formativo e della sicurezza nei luoghi di lavoro. La diminuzione dei costi di produzione, ai quali concorrono i fattori testé citati, consente agli imprenditori una maggiore flessibilità̀ nei riguardi della domanda di prodotti da parte del mercato, contrariamente ai datori di lavoro ossequiosi delle normative. Questi ultimi, oberati da una pressione fiscale notevole e da ingenti costi di assunzione, previdenza e sicurezza, si presentano sul mercato con minore competitività,̀ finendo presto per uscirne a causa dell’incapacità̀ di raggiungere una domanda sufficiente alla copertura dei costi e al conseguimento di un minimo guadagno.
Per evitare un incremento esponenziale dell’adesione alle pratiche dell’economia c.d. “sommersa” e dell’illegalità̀, è centrale ed imprescindibile la predisposizione di forme di contrasto delle assunzione irregolari tramite il “caporalato” e di agevolazioni per quei datori di lavoro che ingaggiassero i prestatori nel pieno rispetto delle normative in materia di retribuzione, orario di lavoro, sicurezza e igiene e contribuzione previdenziale.

Ovviamente il caporalato è solo la punta di un iceberg che affonda in un mare dove si collocano la corruzione, la criminalità organizzata che ha sostituito mediante l’acquisizione di terre l’attività che prima apparteneva ai latifondisti,, la forte concorrenza internazionale, scarsa capacità di innovazione, prezzi bassi pagati dall’industria conserviera, la globalizzazione dei mercati.

Una legge che punisce, nei termini sopra descritti, il fenomeno non è sufficiente, occorrerebbe aumentare i controlli nelle campagne, aumentando al contempo la presenza delle forze dell’ordine in sinergia con le strutture amministrative del territorio, eliminare i ghetti dei braccianti per sostituirli con strutture idonee e sufficienti.

E’ necessario favorire una certificazione “etica” dei prodotti, che assicuri l’impiego di lavoratori regolarmente assunti e tutelati, e che al contempo assicuri la qualità del prodotto. Investire ed incentivare l’arricchimento professionale e la specializzazione, così da rendere sempre più difficile la sostituzione indiscriminata con personale inesperto.

Solo attraverso una migliore redditività dei produttori primari che deve nascere da nuovo accordi con l’industria agroalimentare depurata dall’infiltrazione criminale, si potrà garantire una migliore qualità , il rispetto dell’ambiente e della legalità.

A tal proposito è di recente approvazione (novembre 2015) un nuovo disegno di legge sul caporalato, un provvedimento organico, con cui dovrebbero essere rafforzati in futuro gli strumenti contro il caporalato e nel quale provvedimento la seconda voce di spesa autorizzata (150 milioni di euro) riguarda proprio la Regione Campania, ed in particolare quella zona definita “la terra dei fuochi”.

Non dobbiamo dimenticare, infatti, che nel Sud Italia, oltre i problemi già ampiamente discussi, l’agricoltura ha subito una battuta d’arresto anche a causa di quel fenomeno che prende il nome di “Terra dei Fuochi”.

Con tale termine, utilizzato per la prima volta nel 2003 nel Rapporto Ecomafie 2003 curato da Legambiente, si individua una vasta area situata nell’Italia meridionale, sita in Campania, tra le province di Napoli e Caserta, diventata famosa a livello mediatico a causa della presenza di rifiuti tossici e numerosi roghi di rifiuti e il loro impatto sulla salute della popolazione locale.

Dal 1970 in poi nelle campagne della Campania si sono verificati sversamenti di rifiuti industriali, rifiuti tossici e nucleari. In particolare, nelle zone dell’ Agro Aversano, Caivano, Acerra e Giugliano in Campania si sono verificati roghi di rifiuti industriali, responsabili di un alto tasso di tumori.
I primi sospetti sull’attività illegale dello smaltimento dei rifiuti tossici furono evidenziati nella prima metà degli anni 90 da un’ indagine della Polizia di stato condotta dall’allora ispettore della Criminalpol, Roberto Mancini. La sua informativa del 1996 in cui presentava i risultati delle indagini e i dettagli sui reati e i presunti autori non ebbe però ulteriori importanti sviluppi fino al 2011 quando venne ripresa dal Pubblico Ministero della DD di Napoli, Dott. Alessandro Milita che riavviò le indagini. Nel 2011, secondo un rapporto dell’ARPA della Campania, un’area di 3 milioni di metri quadri, compresa tra i Regi Lagni, Lo Uttaro, Masseria del Pozzo-Schiavi (nel Giuglianese) ed il quartiere di Pianura della città di Napoli, risulterebbe molto compromessa per l’elevata e massiccia presenza di rifiuti tossici.

Negli ultimi 23 anni sono stati smaltiti nella Terra dei Fuochi circa 10 milioni di tonnellate di rifiuti di ogni tipo: scorie derivanti dalla metallurgia termica dell’alluminio, polveri di abbattimento fumi, fanghi di depuratori industriali, reflui liquidi contaminati da metalli pesanti, rifiuti contenenti amianto, morchie di verniciatura.

Nel 2015 nel comune di Calvi Risorta il Corpo forestale dello Stato ha scoperto un’area di sversamento dei rifiuti clandestina, ritenuta la più grande discarica sotterranea d’Europa di rifiuti tossici.

Dal 2001 ad oggi sono state 33 le inchieste per attività organizzata di traffico illecito di rifiuti condotte dalle procure attive nelle due province di Napoli e Caserta. I magistrati

hanno emesso 311 ordinanze di custodia cautelare, con 448 persone denunciate e 116 aziende coinvolte. L’Arpac, l’Agenzia per l’ambiente della Regione Campania, ha individuato 2 mila siti inquinati.

Ad oggi, nonostante un intervento legislativo specifico su questo annoso problema che affligge la Campania, risultano poche le analisi fatte sui terreni, progetti di bonifica assenti, nessun risanamento delle falde e dati epidemiologici preoccupanti.

Anche in relazione a questa ennesima questione che mortifica l’agricoltura italiana, soprattutto del meridione, occorre un serio intervento per programmare il futuro del settore, che potrebbe essere rappresentato dalla costruzione, proprio nel territorio colpito, di un centro di ricerca che possa specializzarsi nella bonifica dei terreni inquinati, impiegando, ad esempio, le cosiddette piante selettive; spesso infatti la cura è già offerta dalla stessa natura.

La problematica del meridione è quindi complessa, c’è un problema di siti inquinati, di costo del lavoro troppo alto, di bassa produttività, scarsa remunerazione, un problema legato alle mafie, ma c’è anche un problema culturale-sociale di indifferenza, omertà e servilismo. Il riequilibrio passa, pertanto, attraverso un riequilibro culturale. Le persone e lo Stato devono riscattare l’immagine della propria terra, individuare un nuovo tipo di agricoltura che sappia rispettare l’ambiente e la dignità di chi lavora , che sia intesa come una leva di sviluppo di tutto il meridione e l’Italia.

A questo fine potranno indubbiamente influire le norme già citate che riguardano la confisca di beni a soggetti criminali, quali mafiosi o camorristi o altro, ed anche la gestione diretta delle colture o degli opifici artigianali o industriali, oggetti della confisca, affidata a cooperative di lavoratori che direttamente partecipano agli utili, allo sviluppo ed al progresso aziendale per un miglioramento di vita.

Tutto questo però deve essere realizzato superando timori legati a fattori ed esperienze, presenti e remote, ambientali, alla diffidenza di soggetti interessati, i quali se non adeguatamente protetti e rassicurati potrebbero sempre preferire un salario dimezzato e di fame, piuttosto che correre pericoli personali e spesso irreparabili.

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